Asja Cogliandro “licenziata perché incinta”. Il tabù della gravidanza nello sport e il caso di Lara Lugli: “È un deja vu”

Per chi pensava bastassero tempo e clamore per cambiare le cose, è arrivata la sveglia. Stavolta è toccato ad Asja Cogliandro, pallavolista di Serie A1, in forza al Perugia. Solo fino alla scadenza del contratto, ribassato. Poi “costretta” – così ha raccontato – a cambiare squadra. O a fermarsi. Perché? Nessuna colpa sportiva: ha deciso di diventare madre.
A gennaio 2025 comunica la gravidanza al club: prima le congratulazioni, poi – racconta – il clima cambia. Le chiedono di lasciare l’alloggio – circostanza smentita dalla società – e di restituire parte dello stipendio. Cogliandro propone alternative: ruoli interni, rinegoziazione. Ma la nuova offerta è inferiore a quanto pattuito. Le viene proposto di chiudere il contratto. Lei rifiuta. E denuncia.
Parla di pressioni, umiliazioni, colpevolizzazione: “Sono stati lapidari. Volevano solo che mi levassi di mezzo”. La Lega e la Federazione esprimono solidarietà. Ricordano che esiste un fondo per la maternità, e che dal luglio 2023 è in vigore la riforma del lavoro sportivo. Il Perugia rigetta la ricostruzione sostenendo che il contratto era in scadenza: nessun licenziamento, quindi, per la società.
Ma c’è chi, dall’interno della Federazione, riconosce che si poteva agire diversamente. “Se fossi stato un dirigente del club, avrei accolto la proposta dell’atleta. Sarebbe stato un gesto di maturità e responsabilità”, afferma Elio Sità, vicepresidente della Federazione Italiana Pallavolo. “Siamo in una fase di transizione. Il caso di Cogliandro dimostra che bisogna ancora fare qualcosa”.
Maternità: parola dolce, direzione naturale – dicono – e bussola emotiva per le donne. Solo finché non interferisce con la carriera. Lara Lugli, ex pallavolista che nel 2018 ha vissuto lo stesso copione – più abietto – lo ripete. Quando rimase incinta, il suo club la licenziò e la citò persino per danni: “Un déjà vu. La riforma non ha cambiato nulla”, ci racconta. “Non è un caso isolato. Succede spesso, ma non tutte denunciano. E non può essere il coraggio delle singole a cambiare le cose”.

Per Lugli la soluzione è il professionismo: “Finché le atlete non saranno registrate come lavoratrici dipendenti, questi episodi continueranno. Serve il riconoscimento pieno e un tavolo serio con federazioni, Coni, Lega e sindacati”. E il fondo maternità? “1.000 euro al mese per un massimo di 12 mesi, accessibili solo a poche, sono una toppa. Il problema è culturale: la maternità è vista come una scelta, l’infortunio come sfortuna. Entrambi ti allontanano dal campo, ma solo con l’infortunio la paga è intatta”.
La società, sottolinea, avrebbe potuto trattenere l’atleta e assegnarle altre mansioni, come proposto da Cogliandro stessa. Secondo Lugli “la scusa economica non regge. Esistono i gruppi sportivi militari con tutte le tutele. Perché non andare incontro alle stesse soluzioni?”. Una domanda in cerca di risposta. Oggi solo la Federazione calcistica ha introdotto il professionismo nella Serie A femminile. Le altre federazioni restano ferme.
“Il professionismo potrebbe essere un obiettivo, ma servono tempi e condizioni”, spiega ancora Sità. Prima delle denunce pubbliche dell’associazione Assist – che da anni combatte per i diritti delle sportive – la clausola anti-maternità era prassi: informale, ma accettata.
Piove sul bagnato. Non su Ermione, ma su Asja e Lara e chissà quante altre. Madri, atlete, licenziate. Una nota di speranza c’è. “Dopo la mia denuncia, ho ricevuto molti messaggi: sia da parte di chi aveva subito lo stesso trattamento, sia da parte di studenti che hanno portato il mio caso in tesi e tesine. È fondamentale raccontare che queste cose accadono. Non siamo riconosciute come professioniste. Molti non lo sanno”, dice Lugli.
Ma manca ancora la coesione tra atlete. “Non punto il dito su chi non denuncia, ma su chi non solidarizza. È grave. E, anche per questo, non è facile organizzare scioperi o azioni collettive”. Il tempo è galantuomo? Lo vedremo. Per ora, alle donne non fa piaceri, ma torti strutturali.
C’è una pubblicità Nike in cui alcune delle più forti atlete del mondo, da Caitlin Clark a Alexia Putellas, si sentono ripetere frasi come: “Sei donna, quindi non sei abbastanza”. La risposta? “So win”. E vincono, eccome. E pretendono anche stipendi e garanzie degni delle loro vittorie. L’Italvolley femminile, intanto, ha appena conquistato l’oro alla Nations League. Serve aggiungere altro?
Luce